国立情報学研究所 - ディジタル・シルクロード・プロジェクト
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Storia della Spedizione Scientifica Italiana nel Himàlaia, Caracorùm e Turchestàn Cinese(1913-1914) : vol.1 | |
ヒマラヤ、カラコルム、中国領トルキスタンへのイタリア科学派遣団の歴史(1913-1914) : vol.1 |
466 CAPITOLO SEDICESIMO
? ~t alti gradini di roccia, o per pendii ripidissimi, con una sicurezza di passo e una
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dolcezza di movimenti che fan maravigliare. Però salgono lenti, colla testa bassa e il muso che quasi sfiora il terreno, e ansimano in modo penoso, con strani rantoli
digrignar di denti, e colpi di tosse asmatica, tanto che fa specie che reggano allo sforzo immane. Hanno il setto del naso perforato e traversato da un cappio, traendo sul quale i conducenti si fanno seguire docilmente (`).
Qualche Chirghiso non ha voluto separarsi dal suo cavallo, e fa la salita a piedi, tirandoselo dietro per le redini. Uno di loro canta un monotono ritornello, per eccezione, perchè di regola sono taciturni. Del resto anche i portatori ladachi che ci seguono dalle Dèpsang, da che hanno traversato il Caracorùm e sono usciti dal loro paese sembrano avere perduto la loro gajezza espansiva ed essersi ammutoliti.
Impieghiamo quasi tre ore a raggiungere la cresta del contrafforte, 500 metri sopra Basàr Darà. Il tempo nebbioso non ci lascia scorgere che i monti più vicini. Di
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là della cresta scende una china precipitosa come quella che abbiamo salito, in fondo alla quale si intravede il Ràschem Darià che contorna al piede il contrafforte che abbiamo scavalcato. La discesa taglia obliquamente la costa verso una valletta dove ci fermiamo su un praticello, fra cespugli abbastanza folti, accanto a un rivoletto che più sotto precipita in cascatelle in una stretta gola sboccando nel Ràschem Darià. Il luogo di campo si chiama Chicìk Burelìk. Il cielo si è rannuvolato del tutto, ed abbiamo un pomeriggio e una sera piovosa.
Nella seconda giornata, più lunga e più faticosa della prima, traversiamo due contrafforti. Saliamo sul primo per una china coperta di detriti così minuti che i poveri jak vi affondano fino al ginocchio, poi per una via un po' meno aspra, tocchiamo una seconda spalla, a 4825 m. s. m. Più di mille metri sotto di noi, in fondo a una voragine profonda, fra tremendi precipizi di roccie nere, luccica il Ràschem Darià. Ma la nostra attenzione è subito presa dalla catena dell' Aghil, vasta, imponente, coperta di ghiacciai, sebbene purtroppo ci mostri poche delle sue vette,
non delle maggiori, che sono avvolte da nubi procellose. Ai suoi piedi due contrafforti circoscrivono una larga apertura alla quale convergono due valli ; la Surcovàt, che discende da Oriente, e un' altra di rimpetto, con direzione opposta, che conduce
(1) Ho fatto cenno altrove degli incroci fra gli jak ed i comuni bovini indiani, detti zho. Quanto agli jak domestici, non è per anco chiarito se si tratti di una specie assoggettata all' uomo da generazioni
ormai diversificata da quella dello jak selvatico, oppure se sia stata di quando in quando rinsanguata
con esso. Da secoli gli jak sono in uso in tutta la Mongolia, e menziona Marco Polo (Vedi la 2a ed.
di H. YULE, Vol. I, pag. 266, e la nota a pag. 268 e segg.). HAMILTON BOWER (Diary of a Journey across Tibet, Londra 1894, pag. 286) descrive la grande abilità degli jak nell' attraversare i ghiacciai e la sagacia con cui sanno evitare i pericoli delle crepaccie. SVEN HEDIN (Travels in Central Asia, Geog. Jour. Vol. V, 1895, pag. 154; e Attempts to ascend Mustagh Ata, ib. Vol. VI, pag. 350) riferisce di essere salito cogli jak fino a circa 6400 metri d' altezza sui fianchi del Mustagh Ata, la più alta vetta della catena di Càshgar.
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